Pensieri
Pop corn e libera immaginazione
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DATA: 28 Gennaio 2016
Finalmente arrivò il giorno. Da tempo mi stavo preparando, tra timori ed entusiasmo.
Sapevo che dovevo fare questo passo, l’idea mi frullava nella testa da mesi e mesi.
E poi arriva il momento in cui non devi più riflettere, devi agire e basta. È una specie di sottile, impercettibile sensazione che ti suggerisce nell’orecchio che è giusto fare qualcosa e sta a te coglierla o continuare a razionalizzare e analizzare. Io decisi di coglierla.
Al mattino iniziai a preparare tutto quello che mi serviva, pentole, tegami, coperchi, stoviglie, bicchieri.
Poi andai al mercato a fare la spesa: cipolle rosse, pomodori maturi, peperoncino. Passai da Nino che vende pasta buona e comprai kg e kg di pasta di grano duro. E continuai così con formaggi e uova presi dal contadino vicino a casa di mia madre.
Le verdure da Irene, nel campo ai piedi dei colli.
Chiamai Roberto e gli dissi di tenersi pronto: arrivò in un baleno e caricammo tutto nel furgone che aveva in prestito da suo padre. La nostra rivoluzione era vicina, lo sentivamo e questo ci elettrizzava come se fosse la cosa più determinante per permetterci di dare un senso ad ogni altro giorno a venire.
Ore 19. Orario dell’aperitivo nelle piazze, gente che passeggiava, rideva, si dava appuntamento in un bar per poi spostarsi in un’osteria per il secondo giro di bicchieri.
Noi entrammo in piazza con il furgone.
Nessuno sapeva cosa stavamo andando a fare. Non avevamo avvisato nessuno, né amici, né parenti, né chiesto permessi.
Nessun preavviso su Facebook. Volevamo che fosse un’invasione vera. Autentica. E soprattutto non prevedibile e rivoluzionaria.
Io e Rob iniziammo a scaricare il camion.
Un mobiletto con le piastre a induzione, dei tavoli di appoggio, alcuni sgabelli. E poi man mano le pentole, le casseruole, i taglieri in legno. Avevamo già preso accordi con il bar di Enrico, quello all’angolo e tirammo una prolunga fino al suo locale per avere energia elettrica. In un baleno collegammo il frigo e i fornelli.
La gente intorno a noi era incuriosita, ma non capiva bene cosa stesse succedendo. Alcuni passavano buttando un’occhiata timida. Altri rallentavano e guardandosi ridevano perché la scena era assurda e curiosa.
Una cucina a cielo aperto prese velocemente forma. L’acqua si stava scaldando sulla piastra e io iniziai a tagliare le cipolle per preparare la cena più folle della mia vita.
Rob iniziò a disporre i piccoli tavoli di legno nella piazza vuota. Sedie recuperate al mercatino, con la vernice un po’ scrostata. Candele su ogni tavolo. Ritagli di tessuti e garze come tovaglie. A quel punto iniziò a diventare chiaro a tutti che qualcosa di strano stava prendendo forma.
Si creò un gruppo ben assortito di ragazzi e ragazze attorno a me, ognuno con il bicchiere di vino in mano, ostaggio dalle osterie in cui stavano facendo aperitivo. Appoggiamo una lavagna al tavolo da lavoro con scritto #cenasottolestelle.
Qualcuno iniziò a scattare foto e postarle su Facebook o su Instagram.
Dalle finestre più alte che davano sulla piazza si affacciavano ragazze, uomini, gruppetti di amici e qualche famiglia.
Il profumo del cibo ormai si diffondeva nell’aria.
Ero frenetico e sorridente, sudavo come un pazzo per seguire fornelli, cibo, persone che mi facevano domande.
Io e Rob ci muovevamo come un fiume che scorre, senza bisogno di parlarci. Tutto era naturale e fluido.
Qualcuno iniziò a sedersi ai tavoli.
Non esistevano menù. Nessuno faceva domande. I primi piatti venivano portati a tavola tra sorrisi increduli e un’atmosfera di festa.
In un battibaleno la piazza si riempì di gente curiosa: le foto sui social avevano dato i loro frutti e molti arrivarono incuriositi.
Il nostro ristorante improvvisato sotto le stelle era ufficialmente aperto a tutti.
Non avevamo chiesto niente e non volevamo niente in cambio.
Abbiamo lasciato che la cosa prendesse forma mentre accadeva, consapevoli che stavamo rompendo mille regole e che avremmo potuto pagare cara la nostra follia.
A un certo punto mi resi conto che avevo dimenticato di comprare il rosmarino.
Guardai Rob e dissi solo “…rosmarino. Mi serve.”.
Il gruppetto di ragazzi e ragazze che si era appostato davanti a me mentre cucinavo colse immediatamente la scena e iniziarono a urlare: “Ragazzi rosmarino! Manca del rosmarino!”.
Sorridevano ed erano felici e curiosi. Per loro era un gioco, ma io avevo davvero bisogno di quel maledetto rosmarino.
Da un balcone al secondo piano un ragazzo sui trent’anni che aveva visto tutto mi urlo “Ehi, guarda qui!” e nel mentre alzò un vaso di rosmarino come fosse un trofeo.
Agii senza pensare. Mi staccai dai fornelli, vedevo Rob che portava del pane a un tavolo di ragazze e mi guardava esterrefatto. Io mi lanciai in una corsa verso quel vaso. Dalla piazza mi arrampicai su una colonna dell’edificio mettendo un piede sulla sella di uno scooter. Riuscii ad arrivare al terrazzino del primo piano che per fortuna era disabitato. La gente mi seguiva con lo sguardo e mi incitava, urlando. A quel punto ero sotto al balcone del ragazzo-rosmarino. Lui legò il vaso a uno spago della biancheria, gli fece alcuni giri intorno e lo fissò con un nodo. Poi iniziò a calarlo verso di me.
[Tweet “Interessarsi di più allo sviluppo di idee e meno ad avere followers #storymaking”]
Dalla piazza tutti continuavano a fare foto alla scena. Il brusio era quello di uno stadio durante una partita, quando la palla sta per entrare in rete. In un attimo avevo in mano la pianta. Guardai in basso, dove Rob mi gridò “Lancia”.
Lasciai andare il vaso, Rob lo prese al volo come un marinaio dal molo prende un bagaglio prezioso.
Io rifeci la strada per scendere e a quel punto tutta la piazza esplose tra applausi e urla da stadio.
Il nostro era un ristorante collaborativo improvvisato.
Gente che si sedeva a mangiare, gustava i nostri piatti, pensati giorni e giorni prima, curati nei dettagli, semplici e buoni, fatti con amore e follia. Nessuno dovette pagare un euro per vivere questa esperienza. Volevamo un bistrò a cielo aperto, un luogo magico dove le persone fossero libere di mangiare, chiacchierare, bere buon vino e divertirsi.
Sarebbe stato il ristorante con la vita più breve, questo è certo.
Ma realizzammo un sogno, facendo la sola cosa che ci piace fare.
Tre uomini si avvicinano ai tavoli con chitarre e fisarmonica e in un attimo la musica invase la piazza.
Tra rumori di piatti, bicchieri, risate. Profumi di cibo. Luce di candele.
Vivemmo l’idea.
Cogliemmo l’intuizione e la trasformammo in realtà.
Dove ci portò? A dare un senso a ogni nostra giornata a venire.
Ignari che quella sarebbe stata l’anticamera di un evento che si ripete in ogni piazza d’Italia, senza preavviso.
Questa è una storia di fantasia. Ma potrebbe diventare reale. La sfida per ogni strategia di comunicazione del futuro è di badare meno ad avere followers e interessarsi di più allo sviluppo di idee che rispondano alle reali esigenze del pubblico. #storymaking